
Alla fine del primo atto, dopo una serie di scene altamente inquietanti, Grete, con una lunga parrucca bionda e un abito di strass, entra in un box trasparente, che viene lentamente sollevato in aria. A quel punto le porte della sala si aprono e dal foyer, stranamente illuminato di blu, si odono cori e canti lontani, frammenti dal secondo atto, mentre in sala le luci si accendono. La sorpresa è totale. Nell’”intermezzo” tra il primo e il secondo atto i personaggi dell’opera si mischiano agli spettatori e, sparsi per tutto il teatro, al bar, nel foyer e sulle scale, cantano pezzi o leggono brani sparsi. Ma, ci viene detto dalle maschere, “non è una pausa”. Suona l’avviso che lo spettacolo sta per ricominciare e mi riavvio al mio posto. Nella sala le luci sono ancora accese, eppure c’è già gente sul palco e l’orchestra sta già suonando – il secondo atto è già iniziato, in maniera fluida e senza alcuna interruzione rispetto alla musica dal foyer – che in effetti sta continuando. Lo spaesamento è assoluto.
La produzione di Der ferne Klang al Teatro di Lubecca fa di una delle caratteristiche più peculiari della musica di quest’opera il perno di una messa in scena sbalorditiva. L’opera con cui Schreker nel 1912 si fece finalmente conoscere dal grande pubblico provoca, soprattutto al un primo ascolto, una continua sorpresa, a causa del continuo allargarsi del suono verso soluzioni musicali inusitate e della creazione di uno spazio sonoro quale non si era mai sentito prima in un’opera. La regia di Biganzoli riesce a ricreare questo senso di sorpresa attraverso una continua evoluzione del rapporto tra musica, scena e spazio teatrale. La presentazione sul programma di sala recita così (traduzione mia, ndr): “ la nostra messa in scena fa consapevolmente riferimento a diverse tecniche teatrali e a differenti estetiche del teatro, in quanto, dopo aver preso l’avvio nella prima parte del primo atto da una rappresentazione realistica (quasi) da film, procede verso un collegamento tra il teatro surrealista e le categorie sperimentali del ‘teatro totale’, per approdare a un tipo di situazione che può essere intesa come rappresentazione concertante.” Il regista Jochen Biganzoli (del quale avevo già apprezzato nel 2013 la messa in scena dei Drei Einakter di Hindemit a Osnabrück e odiato quella di Mathis der Maler alla Semperoper di Dresda nel 2015) sembra conoscere molto bene il teatro di Schreker, dato che il percorso di questa messa in scena riflette quello di un’opera più tarda del compositore, Christophorus, nella quale tanto la rappresentazione quanto lo stile musicale passano attraverso diverse fasi (realismo, neoclassicismo, psicologismo post-wagneriano, danza, jazz, teatro sperimentale, Volkslied) fino ad approdare alla musica assoluta del quartetto d’archi. Insomma, se è folle il regista, folle lo è stato anche il compositore prima di lui.
Una simile impostazione mantiene una certa coerenza interna e col libretto grazie a una sorta di diramazione spazio-temporale, che prende l’avvio subito dopo la prima scena tra Grete e Fritz, l’unica “realistica”. In seguito alla separazione dei due protagonisti, la storia segue dapprima l’evoluzione del “sogno di Grete” (seconda metà dell’atto I e tutto l’atto II) e poi quella del “sogno di Fritz” (atto III). Nessuno dei due sogni è in grado di reggere in maniera autonoma, e, pur se con modalità molto differenti, ambedue i sogni vengono sostanzialmente infranti nel momento in cui l’altro (Fritz nel sogno di Grete e Grete in quello di Fritz) entra fisicamente a farne parte, di fatto denunciando in tal modo la propria assenza. La regia è però molto attenta a mettere in evidenza anche il modo subliminale in cui l’altro è sempre presente ancor prima dell’effettivo incontro, sia sfruttando particolari già presenti nel libretto, sia in modi ancora più sottili. Così l’effettiva presenza in scena dell’orchestra “tzigana” nel secondo atto si rivela come un rimando al mondo di Fritz, che difatti entra in scena quasi seguendo e insieme conducendo i suonatori, mentre la presenza di Grete nell’opera di Fritz non solo come ascoltatrice o Musa ispiratrice, ma come effettiva protagonista, è suggerita proprio dalle diverse posizioni dell’orchestra rispetto alla scena, che, in un infinito gioco di specchi, nella prima parte dell’atto accompagna la messa in scena della vita di Grete nell’opera immaginaria di Fritz , mentre nella seconda diventa essa stessa scena, ma dell’opera di Schreker. Prima ancora di tornare fisicamente sul palco, è Grete stessa il “suono lontano”, che attraversa come un vento tutta l’orchestra e domina l’ultima sezione dell’opera. Ma è proprio il suono, nei suoi sempre mutevoli rapporti col palcoscenico, a palesarsi progressivamente nel suo ruolo di protagonista assoluto di questa messa in scena. Al di là di infiniti piccoli dettagli che si sviluppano lungo il corso di tutto il lavoro, Biganzoli riesce ad approfondire e mutare la percezione stessa del suono sfruttando l’orchestra in molti modi differenti – tali e tanti, che giustificherebbero un’intera lunga sezione a parte. Qui mi limito a segnalare tre risultati particolarmente intensi. Il primo è la scollatura, tipica del teatro di Schreker, tra un tappeto di suoni dolcissimi e quasi cullanti e una rappresentazione al confine con l’incubo. L’effetto complessivo è in questo caso ancora più inquietante del solito e raggiunge la forza allucinatoria del cinema di Lynch (parentela tentata, ma senza uguale successo, dalla regia di Die Gezeichneten di Warlikowski). Il secondo effetto è quello dell’immersione in uno spazio musicale totale nel secondo atto. Se una così completa immersione nel suono si era già attuata anche in altre messe in scena (Der ferne Klang alla Staatsoper di Berlino e Irrelohe alla Volksoper di Vienna), il livello di dettaglio raggiunto dalla produzione di Lubecca è impressionante, con una distinzione mai percepita prima tra i differenti piani musicali e le differenti orchestre in buca, in scena e fuori scena. Infine, la particolarissima idea scenica per l’ultima parte dell’opera permette un’esperienza di ascolto di una nitidezza incredibile. Eppure, nonostante il regista sia disceso così in profondità nel testo e nella musica, egli tradisce alla fine un aspetto formale non proprio secondario di quest’opera, ovvero la sua struttura simmetrica e chiusa, con i due grandi “duetti” dei protagonisti all’inizio e alla fine, un punto centrale rappresentato dalla Ballata del Conte Die glühende Krone, e una serie di scene/eventi a specchio tra la prima e la seconda parte. La messa in scena di Graz del 2015 di Florentine Klepper era imperniata precisamente su quest’aspetto, rendendo perfettamente trasparente e ineluttabile la simmetria interna dell’opera e causando un grado di coinvolgimento intensissimo, mentre la messa in scena di Biganzoli nel finale resta un po’ sospesa in aria.

Una parte sostanziale della grandiosa esperienza di ascolto cui si accennava sopra va naturalmente all’ottimo lavoro del direttore Andreas Wolf, che, tolte occasionali défaillances di singoli esecutori (del tutto comprensibili in una partitura così ardua), dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in questo tipo di repertorio e ne offre una lettura dettagliata e coinvolgente, sfoderando un’amplissima tavolozza di colori orchestrali e possibilità espressive e centrando in tal modo pienamente il tono complessivo dell’opera.

Molto bravi anche gli interpreti. Saluto con particolare piacere il debutto di Zoltán Nyári nel ruolo di Fritz, finalmente una voce nuova per questo personaggio per il quale, per qualche ragione, gli interpreti scarseggiano. Nonostante qualche incertezza, la voce si presenta fresca e squillante e l’interpretazione è molto intensa. Spero che il cantante abbia tempo di correggere le piccole imperfezioni che hanno segnato la sua performance, perché il suo è esattamente il Fritz che da tempo sognavo di vedere sulla scena. Cornelia Ptassek (Grete) ha un’indiscutibile presenza scenica e un’invidiabile sicurezza vocale, al punto da cantare compiendo giravolte o sospesa a mezz’aria da dentro una sorta di box trasparente. La cantante però non dispone di un timbro dei più belli, e la sua interpretazione resta tutto sommato fredda. Tra la ragazzina ingenua del primo atto, la gelida prostituta del secondo e la donna rinata a nuova vita nel terzo non si avvertiva nessuna differenza. Il regista forse era troppo occupato a progettare la diversificazione degli spazi scenici per preoccuparsi di approfondire il personaggio? Bene tutti gli altri, in particolare alcuni ruoli minori, come l’inquietantissima mezzana di Wioletta Hebrowska (interprete che riappare poi anche in altri ruoli) e l’ottimo Rudolf di Tim Stolte. L’impiego in un doppio ruolo ha invece nuociuto a Johan Hyunbong Choi, ottimo nella parte dello “Schmierenschauspieler” ma non altrettanto convincente come Conte, soprattutto nella Ballata. Corretto il Dr. Vigelius di Gerard Quinn, ma del tutto privo del lato vagamente demoniaco che dovrebbe caratterizzare il suo ruolo. Bravissimo il coro
Riassumendo: lo spaesamento provocato da questa messa in scena nello spettatore porta, come nel teatro di Cage, a una nuova percezione della musica, mentre il continuo e tutt’altro che arbitrario mutamento dei rapporti tra orchestra, interpreti e palco agisce come una ventata d’aria fresca e riporta quest’opera nella sua giusta dimensione “rivoluzionaria”, “so ganz etwas Neu’s” (“qualcosa di completamente nuovo”) – così come nel libretto viene descritta l’opera di Fritz. L’intera esperienza è stata elettrizzante e inaspettata – ed è qualcosa assolutamente da non perdere.

Eine deutsche Übersetzung folgt (irgendwann)