La stanza del sogno: Der Schatzgräber alla Deutsche Oper di Berlino

01.05.22 Deutsche Oper Berlin: Der Schatzgräber (Premiere)

Non chiedete a me se vale la pena riportare sulle scene Der Schatzgräber, io amo questo titolo alla follia e sono di parte. Nella musica di Schreker mi sono imbattuto già nel lontano 1987 e in quest’opera in particolare all’inizio degli anni Novanta tramite una trasmissione radiofonica da Amsterdam (dirigeva Edo De Waart). Il mio entusiasmo per Der Schatzgräber tutto sommato mi mette in una posizione di vantaggio rispetto ad altri recensori, perché non solo conosco la musica molto bene, ma ho già visto altre quattro produzioni di quest’opera e sono quindi in grado di fare confronti: a Karlsruhe nel 1999 (direttore: Kazushi Ono; regia: Thomas Schulte-Michels), a Francoforte sul Meno nel 2002 (Jonas Albert e David Alden), ad Amsterdam nel 2012 (Marc Albrecht e Ivo van Hove) e infine a Linz nel 2013 (in riduzione per orchestra da camera, diretto da Martin Sieghart con la regia di Philippe Harnoncourt). L’unica di queste produzioni a proporre il lavoro nella sua integralità è stata quella di Francoforte; la versione di Karlsruhe era barbaramente scorciata (persino di più della produzione di Amburgo del 1989 diretta da Gerd Albrecht che si trova in CD), a Linz, oltre ai tagli, mancava l’orchestra, mentre ad Amsterdam l’unica scena assente per chiara incompatibilità con l’impostazione registica era quella delle due zitelle nell’Atto II. Il fatto però che non solo questa scena, ma anche la scena precedente (II, 2) siano assenti dalla produzione della Deutsche Oper, dove pure registicamente sarebbero state facili da inserire, mi fa sospettare che Marc Albrecht, direttore in ambedue le produzioni, abbia qualcosa di personale contro queste due piccole scene – le uniche in tutta l’opera affidate esclusivamente a personaggi minori (un gruppo di cittadini, due zitelle), del tutto irrilevanti per quanto riguarda l’azione (ma non musicalmente!), eppure anche così peculiari della drammaturgia centrifuga del compositore. A parte quest’unica pecca, la produzione della Deutsche Oper è la migliore che abbia visto finora di questo lavoro, crea un potente arco tensivo dall’inizio alla fine e risolve in maniera del tutto convincente alcuni passaggi musicalmente e scenicamente problematici in cui tutte le altre produzioni erano naufragate, in particolare la scena dell’esecuzione nell’ Atto II e il lungo interludio nel III.

Nei tre ruoli principali tre interpreti dotati di grande intelligenza, pur se nessuno dei tre poteva definirsi assolutamente ideale per quella parte dal punto di vista vocale.

Nel ruolo del titolo, il tenore Daniel Johansson (unico altro veterano di Schreker della produzione oltre ad Albrecht) dispone di un bel timbro e una bella presenza scenica, ma non ha le doti vocali infinite di una superstar e deve giostrarsi bene il suo impervio ruolo. Una volta stabilito che i due pezzi da novanta del suo personaggio sono la Ballata di Ilse nell’ Atto IV e la Leggenda dell’Ascesa in Cielo dell’Epilogo, egli riversa là tutte le sue doti (cantando splendidamente) ma si risparmia invece nei primi tre atti, affrontando gli acuti quasi a mezza voce (tanto da suonare in un paio di occasioni un po’ ingolato) e scegliendo la variante bassa ogni volta che gli è possibile. Se da una parte una tale performance non è in grado di suscitare valanghe di applausi, dall’altro sono da ammirare il coraggio e l’intelligenza con cui viene affrontato un simile impegno, e la prossima volta gli griderò “bravo!”.

Elisabeth Strid nel ruolo di Els è in un certo senso in una posizione complementare rispetto a Johansson, disponendo di una voce dispiegata a piene mani ma difettando nel timbro e nella presenza scenica, ambedue buoni ma non “magici”. Anch’ella ovvia alle sue manchevolezze con grandissima intelligenza interpretativa, da un lato utilizzando tutta la paletta delle dinamiche dal fortissimo al pianissimo (chi scrive che la Strid canta solo forte evidentemente ha dei preconcetti) e dall’altro con una camaleontica performance scenica che la vede dar corpo a diverse sfaccettature del personaggio, dalla cenerentola un po’ impacciata e preda di una vera ossessione nell’ Atto I alla diva anonima e disperata nel II alla fantastica e seduttiva regina nera nel III alla servetta depressa nel IV fino alla miseranda malata dell’Epilogo. C’è solo da restarne sopraffatti.

Michael Laurenz, il Giullare, è un bravissimo tenore di carattere, dotato tra l’altro di un’eccellente dizione e attenzione a ogni singola parola del suo testo e supplisce alla mancanza di una debordante personalità vocale con una buona dose di autoironia e umiltà e con notevoli doti acrobatiche (sic!).

In un certo senso proprio l’imperfezione dei tre ruoli principali li rende perfetti per quest’opera: in fondo si tratta in tutti e tre i casi di emarginati, e questa qualità essi la restituiscono con grande intensità.

Bravi tutti gli altri ruoli grandi e piccoli, in particolare l’ottimo Re di Tuomas Pursio, Patrick Cook nel sinistro ruolo di Albi, Michael Adams come splendido Araldo e Seth Carico, bravissimo a rendere appieno l’infinita tamarraggine del Signorotto. Una lode anche ai due cantanti di casa delle Deutsche Oper Gideon Poppe e Clemens Biber, ambedue capaci di dare rilievo a ruoli così marginali come rispettivamente lo Scrivano e il Cancelliere. Notevole anche la presenza scenica Doke Pauweis nel ruolo muto della Regina. Trovo che Thomas Johannes Mayer funzionerebbe meglio come Balivo se si moderasse un pochino, ma ho il sospetto che nella sua performance giocasse anche la tensione della Prima e mi aspetto di vedere un’interpretazione più affinata nelle prossime repliche.

La direzione di Marc Albrecht è vertiginosa e già di per sé motivo sufficiente per venire a vedere l’opera. Nei dieci anni trascorsi dalla produzione di Amsterdam egli ha approfondito la partitura, filtrandola anche con le esperienze maturate nel frattempo con altri lavori di compositori coevi, come per esempio la prima opera di questo ciclo di Loy alla Deutsche Oper, Das Wunder der Heliane di Korngold. Alla guida di un’orchestra che in tale repertorio post-wagneriano si trova perfettamente a suo agio e che lui è riuscito a infiammare d’entusiasmo per questa musica, Albrecht calibra con infinita attenzione tutti gli ingredienti della formula magica, ricreando in modo trascinante il particolare incremento sonoro che caratterizza tutte le opere di Schreker e che, partendo da un contesto quasi opaco e ancora legato alla tradizione, approda a momenti in cui l’orchestra si scatena in un suono lussureggiante, dionisiaco e  “orgiastico”, come l’ha definito lo stesso direttore, toccando però in questo lavoro anche altri registri, come quello espressionista che sfocia nei passaggi politonali dell’Atto II o lo stile secco che caratterizza il Giullare e che sembra anticipare le soluzioni di tanta musica degli Anni Venti. Lo spettatore viene lentamente del tutto sommerso dal suono e ne rimane incatenato, cessando dopo un po’ ogni resistenza, ogni tentativo di seguire e comprendere, e abbondonandosi completamente. Obiettivo pienamente raggiunto. Ma allo stesso tempo Albrecht non perde mai di vista lo sviluppo tematico e il contrappunto: il suono non si trasforma mai in una pappa indistinta, ma resta sempre ben chiaro nella somma di tutti gli elementi che lo compongono. In particolare devo fare i miei complimenti ad Albrecht per il modo magistrale in cui ha sorretto l’intero arco tensivo dell’Atto III col suo lungo interludio e soprattutto per come ha realizzato la scena dell’esecuzione dell’Atto II, che per una volta suona impressionante come dovrebbe essere. Finalmente qualcuno che non cerca di razionalizzare o attutire gli effetti di questo passaggio e spinge fino alle estreme conseguenze la sovrapposizione di campane, coro di monaci fori scena, coro sulla scena e orchestra stratificata su diversi nuclei tematici, sfoderando precisamente quel caos sonoro politonale previsto da Schreker.

Christof Loy prosegue con quest’opera una serie con al centro “donne criminali”, se si può dir così, cominciata con Das Wunder der Heliane di Korngold e proseguita con la Francesca da Rimini di Zandonai. Si tratta in tutte e tre i casi di figure femminili anticonvenzionali che si scontrano col mondo maschile circostante che vorrebbe ridurle a una funzione ed elaborano un personale modo di procedere col contesto che le circonda – un tipo di atteggiamento giudicato immorale o addirittura criminale dalla società. Heliane, fredda e irraggiungibile col tirannico marito, si fa vedere nuda e toccare da un giovane che il marito ha condannato a morte per le sue idee rivoluzionarie, anzi, addirittura s’innamora di lui e non può fare a meno di mostrarlo; Francesca, sostanzialmente venduta dal fratello a un uomo brutto e violento per ottenerne vantaggi politici, finisce coll’avere relazioni anche coi fratelli di lui, e infine Els non esita a far uccidere i suoi pretendenti per raggiungere l’obiettivo di essere bellissima e inarrivabile, salvo offrire poi tutto quello che ha ad Elis in una notte d’amore. La messa in scena delle tre opere adotta come modello di base quello dello spazio unico, una stanza chiusa, con sottili variazioni che di volta in volta mettono in luce il particolare elemento focale del soggetto. Nella Heliane l’elemento centrale era il miracolo, e proprio per questo l’ambiente era una stanza di tribunale, un ambiente estremamente realistico e soffocante in cui qualsiasi miracolo sembrava impossibile. Nella Francesca la grande finestra centrale con la magnifica veduta romantica metteva in luce la particolare nostalgia, il perenne desiderio di essere altrove, che caratterizza quest’opera, e insieme anche il grande coraggio di Francesca nel muoversi nel mondo completamente diverso che invece la circonda. Nello Schatzgräber, come quasi tutti i recensori hanno notato, l’ambiente è cupo, con una sola (importantissima) finestra sul lato, come se non vi fosse via d’uscita – eppure a molti sembra essere sfuggito che in questa sala manca il tetto e che comunque vi sono due porte, anche se esse sembrano ricondurre sempre nell’ambiente di partenza. Come se non bastasse, al centro della scena campeggia un grande specchio che non riflette niente. L’elemento completamente diverso in questa messa in scena rispetto alle due opere precedenti è quello della irrealtà e del sogno. Nel punto centrale dell’opera Els si esibisce sopra un tavolo in una sala fumosa davanti al padre, ai pretendenti morti e a quelli che ambirebbero a una notte con lei: chiaramente una sorta di sogno. Scene simili affiorano continuamente lungo tutta la messa in scena e si accordano perfettamente con la sostanza del dramma e soprattutto del finale, in cui Elis accompagna Els nella morte con una fiaba per farle credere che tutto l’ultimo, terribile anno sia stato solo un sogno. Le interazioni fra i personaggi, gli sguardi e ogni singolo movimento sono (come sempre con Loy) accuratissimi e perfetti, con una tale ricchezza e varietà di accadimenti che non basta vedere l’opera una volta sola – come se egli cercasse coi movimenti di rendere anche visibili le diverse voci della partitura. Il rispetto della partitura in ogni singolo gesto è tra l’altro estremo e oggidì merce rara sulle scene. Particolare anche il modo in cui Loy porta alla luce i desideri segreti e le frustrazioni nascoste di ogni singola figura. Non ho potuto fare a meno di notare, per esempio, come lo Scrivano, così cinico e pronto a ridere di tutto nell’Atto I, riappaia nella grande scena di sesso di massa dell’Atto III completamente isolato, unico a non mostrare un chiaro interesse sessuale per qualcuno (ma da diversi segni sembra che il suo interesse segreto sia rivolto a Elis), aggrappato disperatamente all’interno del camino (altro chiaro simbolo sessuale, anch’esso sempre al centro della scena). E a proposito del modo in cui è stato risolto l’interludio dell’Atto III: non sono in pochi, critici e non, ad aver trovato sovrabbondante questa scena di sesso selvaggio con coppie di vario tipo. Ma qual era l’alternativa? In due messe in scena sulle quattro che ho visto questo interludio veniva semplicemente scorciato, visto che una messa in scena sensata risultava impossibile, e nelle altre due la regia tradiva completamente lo spirito della musica, ora facendo vagare sulla scena il Re e il Giullare come in una sala d’attesa (Francoforte), ora mostrando un video con gli abusi sessuali che Els aveva subito dal padre (Amsterdam). Alla Deutsche Oper ho visto finalmente e per la prima volta realizzarsi sul palcoscenico ciò che la musica dice, tra l’altro con un’impostazione tutt’altro che estranea al teatro di Schreker, dato che tale caotica frenesia orgiastica proviene direttamente da Die Gezeichneten. Né è l’unico elemento che Loy (che pure si era dichiarato del tutto ignorante riguardo al compositore) sembra avere preso in presto dalle altre opere di Schreker, tanto che questa diventa quasi una rappresentazione globale di tutto il suo teatro. Cosa si può volere di più?

Deutsche Oper Berlin – Der Schatzgräber, 6 maggio 2022

PS – DOPO LA SECONDA RAPPRESENTAZIONE (6 MAGGIO 2022)

La regia di Loy è talmente complessa che effettivamente mi era sfuggito un particolare importantissimo: nel Prologo, che raffigura una specie di elegante party nella scena unica, è presente fin dall’inizio anche Elis, vestito da cameriere. I ranghi sociali sono rigidamente divisi secondo i colori, coi camerieri vestiti color vinaccia/rosso, gli invitati di nero e il Re e la Regina di bianco, di modo che anche il costume del giullare, nero ma col berretto a sonagli rosso, indica chiaramente la sua posizione sociale di mezzo. Addirittura tra gl’invitati c’è una divisione tra quelli normali e quelli di rango militare, cosa che provoca una sorta di rivolta degli uni contro gli altri durante la scena dell’esecuzione nell’Atto II. Tra le cameriere spiccano tre dame vestite di rosso, che a me hanno ricordato tantissimo le dame di compagnia di Francesca.

Il racconto del Giullare riguardo al misterioso cantore Elis affascina il cameriere/Elsi a tal punto che egli dimentica dove si trova e viene fatto bersaglio di scherzi, ma subito dopo si allontana, per tornare alla fine del Prologo armato di liuto, ma sempre con la giacca da cameriere. Dopo aver subito una revisione del look all’inizio dell’Atto I egli fa quindi il suo ingresso ufficiale come Elis il cantore. Ma chi è veramente? Si tratta di un imbroglio, di un’invenzione, o è tutto frutto d’immaginazione? In nessuna scena Elis fa mostra di suonare il liuto e nell’Epilogo torna in abiti civili (giacca marrone, come il Balivo) e senza liuto. Dove finisce la realtà e dove comincia il sogno? Anche l’unica finestra sul lato sottolinea la molteplicità di piani, ora fungendo quasi da specchio per Elis e il Giullare, ora come punto da cui si dovrebbe intravedere l’arrivo del Messo del Re, ora lasciando filtrare una luce lunare che immerge l’intero ambiente in un’atmosfera irreale.

Devo anche parzialmente correggere la mia osservazione riguardo al taglio nell’Atto II: nell’impostazione di Loy il coro nei primi tre atti interviene solo dalla buca dell’orchestra o da dietro la scena. Il motivo è che i presenti in scena fanno tutti parte del corpo di danza e devono partecipare tutti, trasfigurati, alla grande azione sessuale dell’Atto III. Il coro vero e proprio entra in scena solo nella festa dell’Atto IV. Tale impostazione avrebbe reso quantomeno problematiche le due scene dell’Atto II in cui elementi del coro entrano isolati e commentano gli avvenimenti, a meno di non farli banalmente entrare e uscire di scena, cosa che Loy giustamente non ha fatto.

Un piccolo appunto aggiuntivo sugli interpreti: nella seconda rappresentazione Johansson e la Strid erano visibilmente più rilassati e hanno ambedue cantato decisamente meglio; il rilassamento non ha invece giovato a Mayer, vittima di un blackout improvviso nella sua grande scena dell’Atto IV, tanto da smettere completamente di cantare, nonostante il direttore cercasse dalla buca di suggerirgli la parte. Sono cose che capitano e mi dispiace molto per lui.

Tornerò ancora a vedere questa produzione, ci sono infiniti dettagli della regia che devo ancora mettere bene a fuoco. Per esempio, all’inizio dell’Atto II resto ogni volta sorpreso dal notare le lampade sulle pareti e dimentico ogni volta di verificare se esse fossero già presenti nell’Atto I; sempre nell’Atto II appare d’improvviso un tizio col cappuccio da boia e devo capire qual è dei presenti. Ogni singola figura qui ha un suo ruolo e una sua storia personale, il che rende questa messa in scena infinitamente ricca, complessa e stratificata.

Published by amandusherz

Laureato col massimo dei voti e lode all'Università di Firenze con una tesi sui Lieder di Franz Schreker, ha collaborato al programma di sala per la prima rappresentazione italiana di "Die Gezeichneten" a Palermo e ha partecipato come relatore al convegno su Schreker a Strasburgo in occasione della prima assoluta di un'opera di Schreker in Francia. Attualmente scrive la tesi di dottorato alla Goethe-Universität di Francoforte.

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