15.06.2021
Regia in dettaglio/ regia in generale/ musica

All’inizio di tutto c’è l’incontro col suono. Su un palcoscenico vuoto i superstiti di una qualche catastrofe (probabilmente il finale stesso del Ring ma sotto diversi punti di vista anche la Shoah) s’incontrano con un pianoforte, e da lì scaturisce la musica. I viandanti stessi (il Reno) diventano scena e riempiono tutto il palcoscenico, solo uno però ha uno specchio (strumento di autocoscienza) e si trucca da pagliaccio prima di entrare nel turbine: è Alberico. Esattamente come il Pagliaccio dell’opera di Leoncavallo egli è consapevole di interpretare un ruolo e sa che di quel ruolo può anche modificare le regole. Proprio lui, l’outsider, si scopre portatore sano di un nuovo livello di musica e di rappresentazione quando si trova in mano una tromba. Le luci in sala, fino a quel momento accese, si spengono e dal pianoforte al centro del palcoscenico scaturisce la magia della scena. Ma ad Alberico questo non basta: egli strappa la musica alla comunità, la violenta trasformandola in oggetto per diventarne l’unico possessore, e da quel momento nasce “il direttore”, colui che fa danzare tutti sul proprio metro. L’ingresso degli dèi rappresenta la nascita della messa in scena, mentre il palazzo fatto costruire dai giganti è il teatro stesso in cui si trovano gli spettatori. La regia si sviluppa da qui su diversi livelli e meta-livelli, coi giganti che inscenano sé stessi o Wotan che fa nascere oggetti dal pianoforte o da elementi scenici nel momento in cui li pronuncia, ma tutto resta ancora in uno stato estremamente fluido in cui, a parte i “pomi d’oro” di Freia (che sarebbero i suoi seni), tutti gli attributi dei personaggi sembrano trasferibili o provvisori, tanto che Donner inizialmente sbaglia martello, usando quello delle pistole invece del suo classico, come se avesse frainteso il libretto. I viandanti sono ancora parte attiva della messa in scena, soprattutto come macchinisti, pur non essendo più loro stessi la scena come all’inizio. In questo contesto Loge, pur se evocato direttamente da Wotan sul suo pianoforte magico, appare come un nuovo outsider, capace di giocare col testo come se si trovasse contemporaneamente all’interno e all’esterno della rappresentazione. Loge porta sulla scena un nuovo livello di coscienza, narrando di avvenimenti avvenuti al di fuori dello spazio scenico immediatamente visibile sul quale si era concentrata finora la rappresentazione e introducendo concetti del tutto nuovi, tanto da creare, alla fine della seconda scena, una messa in scena tutta sua, facendo muovere i personaggi secondo la sua musica e aprendo un nuovo varco nel telo sul fondo scenico. Al tempo stesso il suo costume, che rimanda in maniera univoca al Mefistofele di Gründgens (quello del celebre romanzo e poi film Mephisto) apre un ventaglio di nuovi livelli d’interpretazione: Mephisto è un artista che impersona il diavolo e che per opportunismo finisce coll’essere il giocattolo del regime Nazista, ovvero per stipulare egli stesso un contratto col diavolo, così come Loge, pur sventolando a più riprese la propria indipendenza, alla fine fa ciò che gli dèi dicono e li segue nel finale dietro il sipario; al tempo stesso però Gründgens è un attore che in un film ha interpretato sé stesso mentre interpretava Mefistofele in teatro, aprendo quindi un vertiginoso gioco di specchi. Nel Nibelheim incontriamo il compositore Mime-Wagner, che di fatto viene tradito dal direttore e ne diventa uno strumento. Il potere (soprattutto sessuale, come si evince in seguito) del suo Tarnhelm viene usato da Alberico per creare un terrificante esercito di soldati senza cervello che fanno il saluto nazista – esattamente come il Wagner storico ha involontariamente offerto materiale all’ideologia nazista. I viandanti riappaiono solo come schiavi dell’Anello, sulla scena restano altrimenti solo valigie e oscurità, creando un ulteriore livello, per così dire reificato, della rappresentazione. In questo livello appare un la partitura, utilizzata da Alberico come libro di potere per far muovere Wotan e Loge secondo il suo schema. Dopo aver imprigionato Alberico, Wotan punta a rettificare il male recuperando il tesoro e impossessandosi (piuttosto brutalmente) dell’Anello. Egli lo usa quindi per creare un nuovo mondo di bellezza, in cui i viandanti possono tornare, anche se solo come spettatori (e così rimarranno anche in Die Walküre), s’illude cioè di essere un creatore. Ma l’idillio dura poco: di fronte alla pretesa di Fafner di avere anche l’Anello Wotan s’irrigidisce e il suo nuovo mondo perde tutti i suoi colori illusori. L’apparizione di Erda dalla buca del suggeritore, armata di partitura, dà alle sue parole “Wie alles war – weiß ich;/ wie alles wird/ wie alles sein wird – / seh ich auch” un senso completamente nuovo, come già notato in un’altra critica – ma soprattutto scuote dalle fondamenta tutto l’impianto: Wotan, che credeva con l’Anello di essere padrone della rappresentazione, scopre invece di vivere nel sogno di qualcun altro. “We are like the dreamers who dreams, and then lives inside the dream”, come fa dire Lynch a Monica Bellucci. Dopo l’omicidio del fratello Fafner sprofonda nel pianoforte con tutto il tesoro e Donner, utilizzando l’arma dell’omicidio (per l’appunto un martello) cancella le tracce dell’orrore facendo sprofondare nel pianoforte anche tutti i resti del vecchio mondo (il diluvio), e ricreando da lì una sorta di gigantesca bandiera arcobaleno, una dichiarazione d’intenti (per quanto fragile) da parte della comunità piuttosto che un simbolo di potere – cosa che ridà un po’ di spirito ai viandanti, tanto da far riguadagnare il proscenio alle Figlie del Reno, che poi stringono Wotan dappresso. Ma Wotan ha idee completamente diverse: egli estrae una spada dalla partitura che ha sottratto a Erda – ovvero si “specchia” nella partitura, acquistando un ulteriore livello di autocoscienza – e mentre tutti si avviano dietro al nuovo sipario egli si butta nella buca del suggeritore, alla ricerca del “dreamer”.
Ogni elemento della dettagliatissima messa in scena si sviluppa da questa linea principale, anche se non tutto può risultare immediatamente chiaro. Io stesso per esempio mi sono chiesto quale fosse il reale ruolo dei giganti in questa rappresentazione: se la corrispondenza tra i viandanti e i perseguitati della Shoah è rafforzata da dettagli visivi come le valigie o una Menorah (il candelabro a sette bracci) nel tesoro restituito da Alberico, chi sono Fasolt e Fanfer, che ambiscono riavere quel tesoro? Poi ho realizzato che anch’essi, da diversi dettagli visivi, fanno parte del Popolo Eletto e che quindi la loro storia, come la storia del tesoro, mostra una specie di corto circuito interno, in cui la violenza subita finisce col divenire violenza esercitata.

Stefan Herheim è un signor direttore che, contrariamente alla moda imperante oggidì, scende in profondità tanto nel testo verbale quanto in quello musicale. L’attenzione riservata al libretto scende fin nelle virgole e non v’è passaggio che non venga in qualche modo individuato e illuminato di una luce particolare. L’attenzione quasi maniacale al testo trova un corrispettivo nella perfetta sincronia tra i movimenti in scena e la musica, con uno stimolante gioco con la tradizione, costantemente rispettata e tradita allo stesso tempo. Tutto il contrario di quello che fanno Bieito, Py e compagnia, per intenderci. Ognuno dei miei personali punti problematici riguardo alla messa in scena del Rheingold (ovvero quei passaggi che solitamente creano problemi ai registi risultando in scene più o meno penose) è risolto con intelligenza e il più delle volte con effetti spettacolari. Avevo già elencato questi punti parlando dell’infelice messa in scena della stessa opera alla Staatsoper diversi anni fa, dove sostanzialmente accadeva tutto il contrario di quanto visto alla Deutsche Oper e dove idee “geniali” rovinavano del tutto anche le scene più semplici. Invece nella regia di Herheim tra le Figlie del Reno e Alberico c’è effettivamente un dislivello fisico (loro si trovano all’inizio sul pianoforte); la trasformazione dell’Oro del Reno in Anello è talmente istantanea, che Alberico non può più essere fermato; l’ingresso dei giganti e le due scene in cui Alberico comanda gli schiavi con l’Anello sono ambedue impressionanti, il pagamento del riscatto ai giganti in quella che fin troppo spesso è una delle scene più imbarazzanti dell’opera è svolto finalmente in maniera anche scenicamente logica, l’ingresso di Erda rappresenta a tutti gli effetti l’intrusione di un piano altro all’interno del contesto e il Ponte dell’Arcobaleno è tanto spettacolare quanto conclusivo. L’unico dei miei punti d’osservazione a restare parzialmente irrisolto resta quello delle due trasformazioni d’Alberico, qui risolte in maniera divertente ma non allo stesso livello del resto. Quello che però soprattutto conta, e che per me resta l’aspetto più importante in una messa in scena del Rheingold, è il senso del meraviglioso, continuamente risvegliato da invenzioni visive semplici e sorprendenti, da un’incredibile mobilità della scena e dal livello estremo e talvolta cruento raggiunto nei passaggi anche musicalmente più potenti. È la prima volta che vengo effettivamente investito da un senso di meraviglia quando risuona per la prima volta il canto “Rheingold! Rheingold!” o che mi si gela il sangue quando Alberico usa l’Anello, né la scena di Donner mi è mai sembrata così coinvolgente e apocalittica. Ed è anche la prima volta che in quest’opera vedo finalmente realizzata una “Steigerung”, cioè un crescendo di tensione continuo dall’inizio alla fine senza punti morti. Chapeau.

La parte musicale non è da meno. Raramente ho sentito in quest’opera una compagnia così equilibrata e senza punti deboli; cantanti tutti molto pravi, tra cui spiccano il Wotan giovanile e luminoso di Derek Welton, il Fasolt sicuro e potente di Andrew Harris, il timbro scuro e avvolgente della Fricka di Annika Schlicht, la ricchezza di sfumature che Ya-Chung Huang riesce a mettere nella sua breve apparizione come Mime e l’energia inarrestabile unita a un bel volume di voce dell’Alberico di Markus Brück. Meritano però una menzione speciale il Loge di Thomas Blondelle e l’apparizione di Judit Kutasi come Erda. Blondelle, che fa parte da tantissimi anni del cast stabile della Deutsche Oper, ha finalmente trovato il suo ruolo ideale. La cura con cui ogni frase e ogni parola vengono colorate con accenti diversi, il modo efficacissimo con cui in certi momenti chiave egli ricorre al pianissimo e la cura estrema nella dizione del testo ne fanno praticamente l’anima dell’opera. Judit Kutasi d’altro canto rispetta pienamente le prerogative della sua apparizione da un piano altro combinando voce, espressione e presenza scenica in modo magnetico. Ma tutti i cantanti di questa produzione sono anche degli ottimi attori.
Il tutto viene coronato dal taglio fresco e nuovo dato alla direzione da Sir Donald Runnicles, che dispiega un’ampiezza di registri raramente sentita in questo lavoro, dalla tragedia all’operetta. Runnicles non arretra di fronte agli sberleffi e al tempo stesso affonda con energia nei momenti di maggior tensione, passando per tutte le varianti di colore e timbro offerte dalla partitura e persino eseguendo il finale con le sei arpe richieste (prima volta che finalmente le vedo!). Lo stesso vale nella scelta di tempi e dinamiche, sempre duttili a seconda del momento, lasciandosi tutto il tempo necessario quando serve e adottando altrove tempi più vivi ma mai affrettati o tirati via, e passando con sovrana sicurezza dal pianissimo più tenue al fortissimo più devastante, ma senza mai coprire le voci. Sono felice e in una certa misura persino sorpreso che questo direttore abbia trovato la sua cifra interpretativa per Wagner dopo le prove non entusiasmanti di alcuni anni fa, e per una volta l’ho applaudito con assoluta convinzione. Quello che egli fa è in effetti completamente diverso da quanto avevo sentito finora in quest’opera, tanto che mi sono trovato a notare particolari nuovi in una partitura che sostanzialmente conosco a memoria. Non vedo l’ora di vedere tutto il resto di questa produzione del Ring!
In sostanza: ce n’è per tutti. Chi avesse dubbi sulla regia non potrà comunque non rimanere affascinato da alcune scene ed ha comunque più di che contentarsi sul lato musicale; e chi sognasse un tipo d’interpretazione musicale più tradizionale non potrà restare rigido di fronte all’energia coinvolgente che si sprigiona da questa messa in scena.
